Alla luce dei discussi avvenimenti di questi ultimi giorni, relativamente cioè al potenziale e sperimentale inserimento dei centri ottici nel Piano sanitario regionale della Lombardia, mi sento mio malgrado in dovere d’intervenire al fine di provare a fare un minimo di chiarezza e, se ne sarò in grado, rasserenare gli animi.
Per quale motivo, “mio malgrado”? Perché la gestione di questa lunga, articolata, complessa materia è nelle corde di Acofis Milano che, di conseguenza, ha totale genitura del progetto. Non si veda, in queste mie parole, una presa di distanza dall’idea di fondo, dalla filosofia che muove – e che presto cercherò di raccontare – questo proponimento, ma così come eventuali onori vanno ascritti a chi ha seguito in prima persona tutto l’iter, non si può pensare che sempre inevitabili oneri debbano viceversa ricadere altrove.
Veniamo quindi all’idea di fondo ed alla sua – a mio avviso – intatta validità, pregando il lettore di arrivare al termine del ragionamento proposto, prima di emettere eventuali sentenze: a meno che quanto si legge ormai da anni, quotidianamente, in merito al più che precario stato di salute della sanità pubblica (mi sia perdonato il gioco di parole), sia destituito di ogni fondamento reale, cioè che il richiedere una visita medica, più precisamente una visita specialistica non comporti tempi di attesa “biblici”, con buona pace per il concetto di prevenzione e di diagnosi precoce così importanti per una positiva prognosi e per i costi sociali della malattia stessa, dovremmo tutti fare qualche riflessione su come tentare di uscire da questa china. In oftalmologia, pur esistendo ad oggi un codice unico relativo alla visita, è risaputo come una parte non irrilevante della prestazione specialistica sia connessa all’atto della refrazione oculare. La proposta, al limite del banale nella sua semplicità teorica, è pertanto che questa parte dell’attuale prestazione “visita oculistica” possa essere ridefinita ed erogata da centri ottici che metterebbero a disposizione (a prezzi più che calmierati) locali, strumentazione e personale competente in merito alla citata refrazione oculare. Questo significherebbe liberare, laddove occorre, altre professionalità (i medici) da questo ruolo al fine di farle concentrare su ciò che più gli appartiene e tanto richiede la popolazione: la diagnosi di patologie e la conseguente terapia.
Discorso completamente diverso è, invece, quello relativo alla “prima visita oculistica”, che a mio avviso (mi auguro non solo mio) deve necessariamente ed inevitabilmente essere erogata da un oculista, così come la seconda, la terza, fino all’ultima. Per essere più chiaro e provare a sgombrare ogni fraintendimento, ritengo non possa spettare che ad un medico ogni valutazione in merito all’eventuale presenza o assenza di patologie a carico dell’apparato visivo.
Da anni vado però dicendo che ottici ed ottici optometristi dovrebbero, a mio avviso obbligatoriamente, eseguire, a margine di ogni loro intervento di natura professionale, una batteria di test da definire (Griglia di Amsler in primis) utili a mettere in evidenza eventuali problematiche patologiche. Proprio con questo spirito, istituzioni pubbliche ben più autorevoli del sottoscritto, cioè il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di concerto con il Ministro della Salute, hanno stabilito, in relazione alle competenze dell’ottico, quella facente capo alla capacità di riconoscimento e conseguentemente alla segnalazione “all’attenzione medica (di) eventuali condizioni del cliente che indichino anomalie degli occhi e della salute”. In questo senso avrebbe dovuto, a mio avviso, essere formalizzato il nostro ruolo, evitando di definire tutto ciò “prima visita oculistica”.
Evidentemente, l’estensore di quelle poche ma sfortunate parole non aveva ben chiari questi concetti, oppure le ha formulate con un gergo burocratico e per nulla tecnico, generando le prese di posizione che abbiamo letto in questi giorni.
Il rischio, come sempre in questi casi, quindi la preghiera che porgo ai signori medici, se davvero vogliamo provare a dare un contributo reale e concreto a questa nostra (cioè di tutti i cittadini italiani) martoriata sanità pubblica, è di non buttare con l’acqua sporca di una evidentemente imprecisa formulazione anche il bambino-progetto, che ha una sua dignità ed una sua logica.